La prima volta a gravità zero non si scorda. Tanto più se sei stato
trascinato in qualcosa che non volevi sinceramente sperimentare.
Tutto sommato, però, la scarica di adrenalina è riuscita a farmi assaporare
quei momenti che altrimenti avrei volentieri rimosso dalla mia memoria.
Si galleggia.
Si fluttua nell’aria.
Si nuota per muoversi oppure ci si lancia cercando di spingersi sugli
appigli più sicuri.
E in un relitto nel mezzo dello spazio, con lo scafo squarciato in più
punti, di appigli sicuri ce ne sono pochi.
La Monkey Wrench ci aspettava, con la pilota (non ricordo il nome o
magari neppure l’ho mai saputo) che teneva in asse la navicella per permetterci
all’occorrenza di ritornare a bordo. E quel portellone, chiuso, dietro cui si
trovava la passerella di collegamento per l’airlock era una visione abbastanza
attraente.
Ma non potevo addurre molte scuse per rientrare, dato che il livello
di radiazioni interno era accettabile. Almeno se sopportato per brevi periodi.
E allora eravamo lì a galleggiare, io e Myar, come due idioti. Almeno
io lo sembravo. La tuta era rigida e rendeva ogni movimento meccanico e
difficoltoso. E soprattutto goffo. E la goffaggine non era ammessa. Un passo
falso e saremmo potuti essere risucchiati nello spazio da uno dei numerosi
squarci nella paratia. Un semplice strappo nel tessuto della tuta e potevamo
considerarci già morti per asfissia, assideramento o chissà che altro.
Pian piano ci si riesce a muovere, ma è veramente difficile se non si
è abituati.
Lo spettacolo che ci si è offerto davanti non era tra l’altro dei
migliori e non incitava nel proseguimento di quel tour guidato. Sedili
scardinati e sangue. Sangue che macchiava le pareti e i sedili stessi. Che
imbrattava i comandi nella plancia di pilotaggio. Che delimitava la strada per
la sala macchine.
Siamo rientrati, senza molto più che altri dubbi ed incertezze su
quello accaduto a quel relitto.
Abbiamo deciso, comunque, di allungare il viaggio per evitare di
incontrare qualunque cosa abbia causato quel naufragio.
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